Giornata Nazionale degli Alberi

Giornata Nazionale degli Alberi

La Giornata Nazionale degli Alberi, istituita dal Ministero dell’ambiente e riconosciuta con l’art. 1 della Legge 14 gennaio 2013, n. 10, si celebra ogni 21 novembre in tutta Italia. Lo scopo è promuovere la cura e la valorizzazione degli alberi e ricordare il ruolo essenziale dei boschi e del verde urbano per il nostro ecosistema.

Nel 2006 il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) lanciò la campagna “Billion Tree Campaign“, con l’obiettivo di piantare un miliardo di alberi per far fronte al riscaldamento globale e per evitare la perdita di biodiversità.

Nel 2007 il target era stato già superato. Nel 2011, quando l’Unep abbandonò il progetto per affidarne la gestione all’iniziativa Plant for the Planet, erano stati piantati 12 miliardi di alberi.

Aver superato di 11 volte il target della campagna, ritenuta inizialmente troppo ambiziosa, portò a pensare che un miliardo di alberi fosse poco ambizioso. E comunque: 11 miliardi di alberi piantati era un risultato soddisfacente? E quanta percentuale rappresentavano rispetto agli alberi del pianeta?

Uno studio condotto nel 2015 da un team dell’Università di Yale, coordinato da Thomas Crowther, aveva stimato che la popolazione mondiale di alberi fosse di circa 3 mila miliardi.

Questo studio era basato sull’integrazione dati e informazioni derivanti da indagini di campo e da satelliti e dagli inventari forestali che diversi paesi producono e che la FAO provvede a raggruppare. 

Per questo studio è stata fondamentale la definizione che «albero» adottata dalla FAO: una pianta perenne, legnosa, provvista di un unico fusto dominante e una chioma più o meno definita, in grado di raggiungere a maturità un’altezza di 5 metri

Questa definizione è necessaria alla FAO per stabilire una demarcazione tra albero e arbusto e compilare statistiche utili per la definizione di strategie e politiche internazionali nei settori della selvicoltura, dell’agricoltura e dell’ambiente. 

Eppure, in molti casi una pianta riconosciuta come arbusto può esibire i caratteri d’un albero in certe condizioni climatiche, pedologiche, colturali. Inoltre, molti di quelli che noi chiamiamo alberi sono classificati all’interno di famiglie botaniche che includono arbusti ed erbe, indicando che il concetto di albero non ha senso da una prospettiva tassonomica e filogenetica. L’albero non è, dunque, una categoria botanica, ma piuttosto una categoria culturale, artificiale, un concetto umano costruito su criteri visivi e cognitivi, un’astrazione in cui il naturale e l’innaturale emergono come configurazioni mutevoli di materia e significato. Per molti la parola albero evoca le immagini di organismi viventi antichi, potenti e maestosi come le querce o le sequoie. 

Ogni albero sostiene la vita sul pianeta, offre riparo, cibo, acqua, legname, fibre, medicine, gomme, resine. La FAO stima che oltre un miliardo e mezzo di persone, tra cui la maggioranza dei popoli indigeni, dipendano dalle foreste per la loro sussistenza. Ogni albero assorbe anidride carbonica, contribuendo a mitigare l’effetto serra, e restituisce ossigeno all’atmosfera. Attraverso le radici e le chiome, specialmente nelle regioni montuose e collinari, gli alberi limitano l’erosione del suolo, controllano le acque meteoriche superficiali, prevengono le inondazioni, consolidano le sponde dei fiumi e dei torrenti, regolano la propagazione di parassiti e patogeni, guidano il riciclo di nutrienti come azoto e fosforo. Nei centri urbani ogni singolo albero porta benefici mitigando le isole di calore, assorbendo inquinanti gassosi, filtrando le polveri sottili. La presenza di alberi migliora il benessere psico-fisico dei cittadini e fa aumentare il valore degli immobili. 

Eppure, sembra che l’importanza degli alberi per la nostra sussistenza ed esistenza non sia apprezzata dall’uomo. Dal 2000 a oggi sono andati persi oltre 200 milioni di ettari di foreste, 15 miliardi di alberi l’anno.
Dall’invenzione dell’agricoltura a oggi l’estensione della superficie coperta da alberi è stata dimezzata. 

È importante ricordare questi numeri in occasione della Giornata Nazionale degli Alberi.

Mentre si celebra questa giornata ciascun abitante della Terra dispone di circa 400 alberi. Ma poiché se ne perdono 15 miliardi all’anno, questo numero è destinato a diminuire: a 386 entro i prossimi dieci anni, a 260 per fine secolo.

Piegare questo declino si scontra con interessi consolidati molto forti e non è semplice.

La scienza ci dice che piantare alberi, seguendo le indicazioni giuste, non è solo una cosa esteticamente piacevole da fare. Proteggere e piantare gli alberi è anche una strategia per sopravvivere e vivere.

Giornata Mondiale dell’Ambiente – 5 Giugno 2024

              MOVIMENTO AZZURRO

                  da Ecologia – Etica – Economia a Planet – People – and Profit

                                  

                    Giornata mondiale dell’ambiente                

     5 giugno 2024

 

Era il 1989, quando il mondo voltava pagina rispetto al dominante modello geopolitico succeduto agli accadimenti che avevano caratterizzato il xx secolo ed alle implicazioni che ne erano succedute in termini sociali, economici, ambientali ed antropologiche.

In quello stesso anno, grazie a Gianfranco Merli, unanimemente riconosciuto padre dell’ecologia italiana e precursore in Europa di questo impegno politico, davamo vita ad un movimento ambientalista che proponesse un nuovo approccio alla questione ecologica, rispetto alle posizioni ecologiste dell’ambientalismo tradizionale, per affrontare in modo consapevole e responsabile le questioni che avrebbero interessato l’intero Pianeta alle soglie del terzo millennio.

La consapevolezza del fatto che la questione ambientale sarebbe divenuta nel breve periodo la problematica centrale di ogni politica e per ogni forma di governo, indusse gli ambientalisti cattolici, uniti dalla medesima formazione, a costituirsi nell’associazione Movimento Azzurro al fine di testimoniare l’impegno teso ad affermare un’etica ispirata ai valori della solidarietà, nel rispetto delle comuni risorse ambientali e della giusta aspirazione di progresso e di benessere della società civile e dei popoli tutti.

Il progetto si concretizza nel 1992, lo stesso anno in cui l’Organizzazione delle Nazioni Unite promuove il vertice mondiale di Tokio sullo stato di salute della Terra, il Movimento Azzurro tiene il suo primo Congresso nazionale, approvando all’unanimità il manifesto del Presidente Merli fondato su tre pilastri “ Ecologia – Etica – Economia”.

L’iniziativa fu dirompente nello scenario ambientalista italiano ed in quegli anni gli ambienti politici ed istituzionali, ma anche gli ambienti cattolici, compresero che la portata della questione ambientale aveva già assunto una dimensione planetaria e che la semplice protesta indirizzata verso la conservazione dello status quo in natura, aveva bisogno di una innovativa proposta di sostenibilità che coniugasse l’esigenza di sviluppo, l’economia e la tutela della casa comune del genere umano e della vita biologica, in chiave etica.

I frequenti e diffusi fenomeni di inquinamento ambientale ed i cambiamenti climatici poi maggiormente evidenziatisi, anche a causa delle modificazioni degli stili di vita che nel mondo  incalzavano; nonché gli stravolgimenti territoriali preconizzati, ancora di più oggi impongono una riflessione ed un dibattito critico sullo stato dell’ambiente e le problematiche che lo investono, nonché la ricerca di soluzioni tese ad arginare il fenomeno. Tale condizione, in generale, si riflette sul tema delle relazioni e dell’intimo rapporto tra l’uomo e la natura, ponendo l’attenzione sui risvolti morali della cosiddetta “ crisi ecologica”.

Tutti gli ultimi appuntamenti internazionali fissati attraverso Conferenze internazionali sui temi ambientali, da Rio de Janeiro in poi, sino alla Conferenza di Parigi sul clima, COP 21, alla quale abbiamo aderito come sottoscrittori dell’iniziativa seguita per l’Italia dal Ministero dell’Ambiente, non hanno sortito i risultati sperati, almeno nella maniera desiderata.

Parigi avrebbe dovuto segnare una tappa decisiva nei negoziati del futuro accordo internazionale per il dopo 2020, con l’adozione dei grandi orientamenti, come deciso a Durban prefiggendo lo scopo che tutti i paesi, fra cui i maggiori emettitori di gas a effetto serra – paesi sviluppati nonché paesi in sviluppo – fossero impegnati da un accordo universale costrittivo sul clima.

Esso avrebbe dovuto trovare un equilibrio tra l’approccio di Kyoto – una divisione matematica degli impegni di riduzione delle emissioni, a partire da un comune limite massimo consentito – e quello di Copenhagen, un insieme di impegni nazionali non costrittivi e senza caratteristiche paragonabili. Purtroppo quasi nessuno degli obiettivi prefissati si è pienamente concretizzato, generando delusione tra gli ambientalisti e mancanza di fiducia tra le popolazioni maggiormente interessate al risanamento ambientale attraverso una riconversione ecologica.

In questo stesso clima che voleva essere di speranza per l’umanità, rimane un faro acceso, quasi premonitore, l’enciclica sull’ambiente di Papa Francesco, Laudato sì…

A lungo l’ambiente è stato considerato come un oggetto privo di valore (morale), da sfruttare a piacimento del genere umano e senza limiti. Sembrava, però, profilarsi un cambiamento del pensiero e della cultura che tendesse ad orientare le scelte scientifiche, tecnologiche e politiche in una prospettiva di sostenibilità. Le implicazioni di carattere etico sollevate dai problemi ambientali e legate alla necessità di non arrestare lo sviluppo tecnologico, bensì di farlo avanzare tenendo conto della persona e della qualità della vita

sono infatti estremamente complesse e coinvolgono aspetti materiali, sociali, scientifici, filosofici, educativi e culturali.

La questione ambientale, d’altronde, non può essere considerata solo in termini tecnico- scientifici o puramente economici, o come problema appartenente solo ad alcuni gruppi sociali: essa al contrario va coinvolgendo la società in tutte le sue articolazioni e si presenta in modo sempre più esteso come una questione culturale ed etica.

Però, in quest’ultimo trentennio, nonostante le manifestazioni di buona volontà espresse dalla Comunità internazionale per trovare soluzioni alle questioni più cogenti sullo scacchiere ambientale, come detto, da Rio de Janeiro nel 1992, non si è trovato ancora un univoco punto di vista su decisioni che perseguano il bene comune, rispetto agli egoismi della minoranza dei Paesi ricchi verso la stragrande maggioranza di quelli poveri, tant’è che la moderna filosofia dell’ambientalismo di professione, il cosiddetto “Green”, non essendo mai di fatto riuscita ad approcciare all’elemento Etico della tre “E” , propone il passaggio ad una nuova “ etica”, sostituendo le tre E di “Ecologia-Etica- Economia , con le tre P , più anglosassoni, di “Planet – People – and Profit”.

Si coglie allora immediatamente che quella dell’ambiente non vuole essere affrontata come una problematica propriamente antropologica e, proprio per questo, una problematica specificamente morale: nell’ambiente non è in gioco semplicemente la natura come tale, ma è in gioco l’uomo stesso, la sua verità e la sua dignità.

In realtà, nel modo in cui l’uomo si rapporta all’ambiente, ci è dato di cogliere quale tipo di “signoria” l’uomo stesso esercita nei confronti delle realtà create e dunque, della sua stessa “casa”.

Da una parte esiste una signoria che viene intesa e vissuta come “dominio assoluto e arbitrario”, dall’altra esiste, e deve esistere, anche una signoria che si qualifica come “responsabilità” vissuta all’insegna della saggezza umana, anzi dell’amore. Sì, perché la propria “casa” merita di essere amata, dove per propria casa si può intendere: la propria città, il proprio paese, il proprio ambiente, quel patrimonio di beni naturali e culturali dei quali oggi viviamo e che saranno gli elementi essenziali della vita dei nostri figli, delle future generazioni.

“La protezione dell’ambiente, delle risorse e del clima richiede che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente, nel rispetto della legge e promuovendo la solidarietà nei confronti delle regioni più deboli del pianeta”;

“Possiamo dare vita a uno sviluppo umano integrale vantaggioso per tutti i popoli, presenti e futuri, uno sviluppo che si ispiri ai valori della carità nella verità”;

“Perché ciò si avveri è essenziale che il modello corrente di sviluppo globale si trasformi mediante una più vasta e condivisa accettazione della responsabilità per il Creato, ciò è necessario non solo per i fattori ambientali, ma anche per lo scandalo della fame e della povertà” nel mondo.

L’esperienza vissuta dai primi ambientalisti cattolici, riuniti in associazione di Protezione Ambientale, riconosciuta dallo Stato italiano ed identificatasi come Movimento Azzurro associazione d’ispirazione cristiana, va esattamente nella direzione della affermazione della centralità dell’uomo rispetto alla risorsa ambientale, ma certamente anche rispetto a tutte le responsabilità che da questa centralità derivano.

D’altronde cos’e l’ambiente se non la somma; la risultante, delle azioni umane sull’habitat naturale.

22 Aprile ” Giornata Mondiale della Terra”

Earth Day: 22 aprile

Ogni anno, un mese e due giorni dopo l’equinozio di primavera, il 22 aprile, viene celebrata La Giornata Mondiale della Terra, con l’obbiettivo di salvaguardare il pianeta e l’ambiente.

L’Earth Day è la più grande manifestazione ambientale del pianeta, che vede coinvolti ogni anno in tutto il mondo fino a 1 miliardo di persone in ben 193 paesi. Uniti insieme per celebrare la Terra e promuoverne la salvaguardia e la tutela.

Un po’ di storia

Nacque in America nel 1970, con la prima celebrazione il 21 marzo 1970, un anno dopo l’incidente ad una piattaforma petrolifera al largo di Santa Barbara in California, che causò la fuoriuscita di 10 milioni di litri di petrolio in mare, per 11 giorni. L’evento colpì moltissimo l’opinione pubblica, in particolare il senatore Gaylord Nelson che con il presidente John Kennedy si batteva già da qualche anno per l’istituzione di una giornata per sensibilizzare i cittadini sulle tematiche ambientali e celebrare la Terra.

Fu poi l’attivista per la pace John McConnell a proporre l’istituzione di questa Giornata nell’ottobre del 1969, durante la Conferenza dell’UNESCO a San Francisco; la Giornata Mondiale della Terra è stata poi riconosciuta nel 2009 anche dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha sottolineato l’importanza della responsabilità di tutti – grandi e piccoli – per raggiungere l’armonia con la natura e l’equilibrio fra i bisogni economici, sociali e ambientali.

Comunicato stampa- CONTRO LA FINTA TRANSIZIONE ECOLOGICA: NO AL BIOMETANO E AGLI ALLEVAMENTI INTENSIVI!

L’invasione degli impianti per la produzione di biometano da reflui zootecnici e colture dedicate o da FORSU e fanghi da depurazione urbana e industriale sta avvenendo nel nostro Paese a ritmi sostenuti.

L’incentivazione massiccia, 1 miliardo e 900 milioni di euro dal PNRR, sollecitata dall’azione lobbistica esercitata a Bruxelles e poi riscossa in Italia consente di trarre notevole profitto anche senza un reale ricavo da produzione e vendita di biometano.

Contributi a fondo perduto fino al 40% in conto capitale e incentivi di 110 euro al MWH per gli impianti a matrice zootecnico-agricola e di 62 euro al MWH per impianti che utilizzano FORSU rendono appetibile e sostenibile dal punto di vista della remunerazione un’attività industriale, di questo si tratta, che altrimenti non sarebbe interessante per chi investe.

Solitamente si crea una srl con un bassissimo capitale sociale incaricata di individuare aree idonee e reperire le autorizzazioni necessarie e poi la realizzazione dell’impianto va a società del settore che ne rilevano titoli eincentivi.

E non importa che il biometano sia la fonte energetica a più basso EROI (rapporto tra energia ricavata e energia consumata per ricavarla) tra tutte e non sia, di fatto, sostenibile, gli incentivi bastano e avanzano a riempire le tasche dei gestori di un impianto.

Di fatto il biometano non è neppure economia circolare in quanto necessità di combustione per produrre energia, provocando oltretutto emissioni di gas serra, polveri sottili e altri inquinanti nocivi alla salute.

Intorno ad un impianto vi è inoltre una notevole mole di traffico pesante per i necessari approvigionamenti del materiale da biodigerire e lo smaltimento delle scorie di lavorazione trasformate in parte in digestato-compost e in parte in rifiuti da smaltire.

La necessità di reflui zootecnici incrementa inoltre la realizzazione di allevamenti intensivi che, soprattutto per quelli avicoli, vedono in questi impianti la possibilità di aggirare la direttiva nitrati che prevede un quantitativo massimo di smaltimento diretto di deiezioni sul terreno per evitare l’inquinamento dalle acque.

Gli impianti a FORSU favoriscono invece il turismo dei rifiuti, il Veneto ha il primato nazionale in questo campo, importando una mole di rifiuti organici da tutta Italia, isole comprese, quasi pari a quella che produce esso stesso.

Gli impianti di trattamento FORSU e fanghi in Veneto sono già più che sufficienti per la massa complessiva da trattare.

Sui fanghi c’è sempre il rischio dell’utilizzo di quelli saturi di Pfas.

C’è poi l’aspetto legato ad odori e qualità della vita: chi vive in prossimità o sottovento rispetto agli impianti si gode, oltre ai già citati inquinanti, i profumi da letame o discarica che, nonostante le tecnologie, vengono emessi.

Trovare una comunità come Ariano nel Polesine che, oltre a numerosi allevamenti intensivi, accetta di ospitare un impianto monstre che tratterà decine di migliaia di tonnellate di deiezioni di polli è un affarone per gli imprenditori del settore.

E coi soldi del PNRR che tutti i cittadini dovranno restituire alla UE tra un paio d’anni, possono tranquillamente permettersi un Festival.

Come sempre panem et circenses a nostre spese in ogni senso.

Rete No biometano e allevamenti intensivi

Elenco sottoscrittori documento:
Comitato No Biometano Papozze;
Comitato Ambiente e sviluppo Cavarzere;
Comitato salute e territorio per il futuro di Canaro;
Comitato lasciateci respirare Vescovana;
Comitato difesa ambiente Corbola;
No biogas Ceregnano;
Terre Nostre Villadose;
Rete dei comitati polesani a difesa dell’ambiente;
Coordinamento Nazionale Terre Nostre;
Italia Nostra sezione di Rovigo;
Lipu sezione di Rovigo;

Movimento Azzurro Veneto.

Rovigo, 17 Aprile 2024

Giornata Mondiale delle Zone Umide

🌱 Le zone umide svolgono una funzione essenziale per il nostro ambiente: forniscono acqua, sono una barriera naturale contro le alluvioni nelle zone interne e contrastano l’erosione da parte del mare sulle zone costiere, assorbono grandi quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera e tutelano la flora e la fauna locale.🦩

Oggi si celebra la Giornata Mondiale delle Zone Umide, anniversario della storica “Convenzione di Ramsar” che nel 1971 vide, nell’omonima città iraniana, la firma di un documento sottoscritto da 172 paesi per l’individuazione e salvaguardia delle zone umide.🇮🇹 La lista comprende 2400 siti di rilievo internazionale, di cui 57 in Italia all’interno dei siti della Rete Natura 2000 tutt’ora in continua espansione.

👉 Leggi di più sul sito del MASE:http://www.mase.gov.it/…/giornata-mondiale-delle-zone…

Biodiversità agricola e salute umana

Biodiversità agricola e salute umana

ALIMENTAZIONE SOSTENIBILEPIANETA AGRICOLTURA

Biodiversità agricola e salute umana

Secondo il rapporto su “Salute e Biodiversità” presentato dall’OMS al 14° Congresso Mondiale per la Sanità Pubblica si dimostra il contributo significativo di biodiversità e servizi ecosistemici al miglioramento della salute umana attraverso l’impatto sulla qualità dell’aria e dell’acqua, la nutrizione, le malattie non trasmissibili e infettive, i farmaci.
Inoltre, secondo un recente rapporto di Chatham House (Royal Institute of International Affairs, comunemente noto come Chatham House, che è un centro studi britannico, specializzato in analisi geopolitiche e delle tendenze politico-economiche globali) lanciato in collaborazione con l’UNEP e Compassion in World Farming (Maggiore organizzazione internazionale senza scopo di lucro per il benessere e protezione degli animali da allevamento), si è evidenziato che il sistema alimentare è il primo driver di perdita di biodiversità.
Il sistema alimentare globale è infatti il primo driver della perdita di biodiversità, con l’agricoltura che, da sola, rappresenta una minaccia per 24.000 delle 28.000 (86%) specie a rischio di estinzione. Come evidenziato nella figura che segue, i dati ci dicono, tra l’altro, che il tasso globale di estinzione delle specie, oggi, è più alto di quello medio degli ultimi 10 milioni di anni e che potrebbe essere invertito solo a condizione di un modello green di produzione agroalimentare.

Il “paradigma del cibo a basso costo”, ha notevolmente influenzato l’aumento degli input come i fertilizzanti, i pesticidi, l’energia, la terra e l’acqua. Questo paradigma conduce a un circolo vizioso: il costo più basso della produzione di cibo crea una più grande domanda di cibo che deve essere prodotto a un costo più basso, aumentando le produzioni e provocando una ulteriore deforestazione e desertificazione del suolo.
Inoltre se si continua in questa direzione, la perdita di biodiversità continuerà ad accelerare a meno che non cambiamo il modo in cui produciamo il cibo.
Tra l’altro una ulteriore distruzione degli ecosistemi e degli habitat minaccerà la nostra possibilità di assicurare la sopravvivenza delle popolazioni umane.
Per operare tutto ciò è necessario, tuttavia, un cambiamento delle diete onde consentire che molti terreni tornino alla natura e per permettere l’adozione diffusa di un’agricoltura più rispettosa della stessa senza aumentare la pressione di conversione di aree naturali in aree agricole.
Più la prima azione viene messa in pratica, attraverso il cambiamento delle diete, più si creano possibilità per la seconda e la terza azione.
L’attuale sistema alimentare è una lama a doppio taglio, creata soprattutto negli ultimi decenni al fine di produrre più cibo, più velocemente e a costi più bassi, senza tenere in considerazione i costi nascosti dovuti alla perdita di biodiversità e le sue funzioni essenziali per la vita e per la nostra salute.
Per questo motivo bisogna riformare urgentemente il modo in cui produciamo e consumiamo il cibo. La biodiversità agricola non può essere tutelata se non agiamo sulla biodiversità alimentare.
Tra l’altro la biodiversità alimentare, intesa come biodiversità dei vegetali, degli animali e degli altri organismi che costituiscono il nostro cibo, contribuisce in più modi a una dieta sana e diversificata.
In tal senso vari studi sulla composizione dei cibi evidenziano che il tenore di nutrienti (macro e micronutrienti) può variare in modo molto pronunciato sia da specie a specie sia tra cultivar di una stessa specie. In particolare, le varietà selvatiche, di norma, risultano più nutrienti di quelle domestiche.
Inoltre, va ribadito che le specie endemiche o autoctone si adattano meglio alle condizioni ambientali del territorio e, pertanto, spesso richiedono meno input esterni, come acqua o prodotti fitosanitari che comportano seri problemi per la salute dei consumatori, degli agricoltori e per le condizioni ecologiche dei paesaggi agrari e naturali.
Infatti, per difendersi da stress ambientali come temperature elevate, siccità e gelo, che causano la produzione di radicali liberi che possono danneggiare il loro DNA, le piante mettono in atto meccanismi di resistenza che attivano la produzione di molecole dotate di proprietà antiossidanti.
Per questo motivo bisogna implementare sistemi agroecologici che contribuiscano a consumare specie vegetali indigene che, come tali, hanno sviluppato difese contro le condizioni ambientali o gli agenti esterni, aumentando anche il tenore di sostanze protettive nella nostra dieta, come i terpeni, e molecole importantissime come i carotenoidi e la vitamina E, i composti fenolici come i flavonoidi, gli alcaloidi e i composti a base di azoto e zolfo che esercitano un’efficacissima azione antiossidante.
Ad esempio, il consumo prolungato di polifenoli può contribuire a ridurre il rischio di cancro, disturbi cardiovascolari, diabete, osteoporosi e malattie neurodegenerative, proteggendo l’organismo dai danni che i radicali liberi arrecano al DNA.
Non per nulla la cosiddetta Strategia Farm to Fork dell’Unione Europea lega indissolubilmente i due momenti del sistema agroalimentare: le aziende agricole (Farm), con la necessità di incrementare la biodiversità agricola tramite sistemi agroecologici, e il consumatore finale (Fork = forchetta) che deve incrementare la biodiversità della sua dieta.
Il connubio biodiversità alimentare – biodiversità agricola è l’unica strada per far vivere meglio persone e pianeta, rispolverando un po’ la famosa frase: mens sana in corpore sano (“mente sana in corpo sano”), locuzione latina tratta da un capoverso delle Satire di Giovenale. In poche parole esiste una perfetta sincronia (e logica) che unisce indissolubilmente la salute della specie umana con quella dell’ecosistema planetario; non possiamo regolare una senza intervenire sull’altra e viceversa.
Inoltre, come riporta il rapporto elaborato da Chatham House, l’impatto di questa corsa al ribasso del cibo non si limita ad incidere solo alla perdita di biodiversità. Il sistema alimentare globale è uno dei principali motori del cambiamento climatico e rappresenta circa il 30% delle emissioni totali prodotte dall’uomo: un cambiamento nella nostra dieta diventa quindi una necessità, per restituire le terre sottratte alla natura e con l’obiettivo di sviluppare un’agricoltura sempre più rispettosa degli ecosistemi naturali.
La valutazione del ciclo di vita (LCA) consente di affrontare in modo sistematico gli impatti ambientali lungo le catene di approvvigionamento, rappresentando una metodologia di riferimento che può essere applicata per valutare i sistemi alimentari.
È necessario, pertanto, adottare sistemi di valutazione basati sull’LCA per determinare le incidenze dei sistemi di dieta e relativi approvvigionamenti alimentari sulla perdita di biodiversità e quali aspetti devono essere ulteriormente elaborati per garantire una valutazione completa degli impatti sulla biodiversità dovuti alla produzione e al consumo di cibo (Crenna E. et al. 2019).

Guido Bissanti

Il presente articolo è una delle sintesi che emergono dal libro di prossima pubblicazione sull’agroecologia (primavera 2024) a firma del sottoscritto e degli altri ricercatori: Giovanni Dara Guccione (CREA-PB), Barbara Manachini (UNIPA), Paola Quatrini (UNIPA) e con la prefazione di Luca Mercalli (presidente Società Meteorologica Italiana).

Il Movimento Azzurro dice NO al Deposito nazionale delle scorie nucleari. Il ministero identifica 51 siti idonei in 6 regioni.

Le zone indicate in un apposita Carta si trovano In Piemonte, Lazio, Sardegna, Basilicata, Puglia e Sicilia. Scattate subito le proteste

 Deposito nazionale delle scorie nucleari: il ministero identifica 51 siti idonei in 6 regioni

Dopo anni di attese, studi e polemiche, il Ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica ha pubblicato la mappa delle aree idonee per il deposito nazionale delle scorie nucleari in una lista denominata Carta nazionale delle aree idonee per il deposito nazionale delle scorie radioattive (Cnai). La Cnai, diffusa oggi, è stata preparata dalla Sogin, la società pubblica che dovrà realizzare e gestire l’impianto per lo smantellamento degli impianti nucleari. I 51 siti sono raggruppati in 5 zone ben precise, su 6 regioni

In Piemonte, 5 siti: la zona adatta è in provincia di Alessandria, nei comuni di Bosco Marengo, Novi Ligure, Alessandria, Oviglio, Quargnento, Castelnuovo Bormida, Sezzadio, Fubine Monferrato.

Il Lazio ha il maggior numero di siti idonei, 21, tutti nel Viterbese, nei comuni di Montalto di Castro, Canino, Cellere, Ischia di Castro, Soriano nel Cimino, Vasanello, Vignanello, Corchiano, Gallese, Tarquinia, Tuscania, Arlena di Castro, Piansano, Tessennano.

In Sardegna, gli 8 siti sono concentrati fra la provincia di Oristano e quella di Sud Sardegna, a Albagiara, Assolo, Usellus, Mandas, Siurgius Donigala, Segariu, Villamar, Setzu, Tuili, Turri, Ussaramanna, Nurri, Ortacesus, Guasila.

Fra Puglia Basilicata sono concentrati 15 siti: fra la provincia di Matera (Montalbano Jonico, Matera, Bernalda, Montescaglioso, Irsina) e i comuni di Altamura, Laterza e Gravina, con una appendice nel Potentino, a Genzano di Lucania.

In Sicilia si trova la quinta e ultima zona, nel Trapanese, con aree idonee a Calatafimi, Segesta e Trapani.contenitori per rifiuti sanitari(Pixabay)contenitori per rifiuti sanitari

I criteri adottati

Nel 2021 Sogin aveva pubblicato una prima Carta di 67 aree potenzialmente idonee, basata su 28 criteri di sicurezza fissati dall’Isin, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare. Fra questi criteri ci sono la lontananza da zone vulcaniche, sismiche, di faglia e a rischio dissesto, e da insediamenti civili, industriali e militari. Sono escluse le aree naturali protette, quelle oltre i 700 metri sul livello del mare, a meno di 5 km dalla costa, con presenza di miniere e pozzi di petrolio o gas, di interesse agricolo, archeologico e storico. E’ richiesta infine la disponibilità di infrastrutture di trasporto. Su questa prima lista di 67 siti, è stata aperta una consultazione pubblica con gli enti locali e i cittadini interessati. Al termine di questa, Sogin ha stilato la lista finale dei 51 siti idonei. 

Ma la lista non è chiusa. Il recente Decreto legge energia ha introdotto la possibilità di autocandidature anche per i comuni che non sono compresi nella mappa. E ora ci sono 30 giorni per presentarle. Entro 30 giorni dalla pubblicazione della Carta, possono essere presentate autocandidature ad ospitare il deposito da parte di enti territoriali e strutture militari. Possono presentare candidature anche enti locali non indicati nella Cnai, chiedendo alla Sogin di rivalutare il loro territorio.

La pubblicazione della lista ha scatenato proteste e rimostranze da varie realtà legate ai territori elencati come possibili luoghi destinati a deposito.